Io ho una teoria: per pescare ci vogliono canne, esche e culo. Tanto culo. Io, modestamente, ne ho avuto in dosi - diciamo così - superiori alle media. Non per nulla, a dispetto di tanti acciacchi, sono ancora qui a rompere. E non per nulla, quando il culo si ricorda di essere tale, si riesce anche a pescare. E' avvenuto all'alba di martedì, alla partenza da Nettuno con quattro sgombretrti (due piccoli e due medi). Poi, per trenta miglia, niente di niente.
Ad una decina di miglia dal canale di Procida comincia a rinforzare il vento e a montare il mare. Tolgo la randa e al gran lasco, con il solo genoa, si va a poco più di cinque nodi (carena sporca, anzi sporchissima), ma domattina verrà un sub, qui a Pozzuoli, a darle una pulita radicale). Horus, colpita al giardinetto da ondine di un paio di metri o poco più rolla. Ma sta nei patti e non mi lamento. Penso a quanto è bella la mia barca-casa e a come si comporta bene in ogni condizione di mare, quando il cicalino della canna "grande" si mette a urlare. Tiro la canna dal suo supporto, tolgo il cicalino e stringo un po', ma non molto, la frizione.
E' un pesce, non uno dei tanti sacchetti. Ogni tanto mollava la pressione e ne approfittavo per recuperare filo. Poi lui, il pesce, ricominciava a tirare. Sicuramente era roba grossa: il mio "peso massimo", in tutta la mia vita, non ha mai superato i due chili, due chili e mezzo. Questo, sicuramente, era più grande.